Punta e a capo

Roberto Beccantini10 settembre 2017

Non ho mai creduto nel calcio d’agosto, eppure avevo pronosticato Lazio-Milan 1-2. E’ finita 4-1. Hanno stravinto le ricette della «nonna». Sommare punte non significa attaccare meglio: sul tema, il Ventura del Bernabeu potrebbe scrivere un libro (per carità, dipende anche dagli avversari). Simone Inzaghi ne aveva una, di punte: Immobile. Ha ricavato tre gol. La Lazio era una squadra collaudata, con un suo equilibrio. Il Milan, una squadra rifondata dal e sul mercato, con i suoi misteri. Mi ero permesso di sdottorare che avrebbe deciso la panchina di Montella, molto più «lunga». Modestamente, non ci ho preso manco qui.

Le sconfitte aiutano a crescere più di certe vittorie, e questa (sconfitta) molto dovrebbe aver insegnato ai padroni cinesi. Le vendemmie estive fanno bene agli abbonamenti, ma possono anche gonfiare i valori netti del giocatori, e dunque del gioco.

Nella Lazio sono stati determinanti Milinkovic-Savic e Luis Alberto: troppo arretrati in avvio, poi sempre al posto giusto nel momento giusto. Nel Milan non lo è stato nessuno. Nemmeno Bonucci. Del quale rimpiango i lanci, le aperture, più che le chiusure. Bonucci non è un fuoriclasse. E se è diventato leader, lo deve al castello che la Juventus gli costruì attorno, e lui contribuì a rendere una cartolina.

La Lazio mi spiazza sempre. In discussione erano la personalità, ballerina, e la rosa: non il telaio, e tanto meno l’allenatore. Gli ultimi derby di coppa e la Supercoppa strappata alla Juventus ne hanno consolidato le certezze, che non erano poche ma erano fragili. Sarà la continuità a fissare i nuovi confini.

Il Milan è stato l’idea lenta di Biglia, il «museo» del centrocampo alla mercé di troppi turisti. Aggiungetevi un tocco di presunzione, quella Lazio così mobile e Immobile e lo scarto vi sembrerà la cosa più naturale del mondo.

Il carro attrezzi

Roberto Beccantini9 settembre 2017

Maran è un artigiano che addobba la sua bottega anche di idee (Birsa, per esempio) e non solo di forza bruta. Può piegarsi, ma è difficile che si spezzi. La Juventus di scorta ne ha patito i movimenti, le intenzioni. Con il Barcellona alle porte, Allegri aveva liberato un po’ di mercato: Szczesny, Matuidi, Douglas Costa. L’abuso di retropassaggi non è dipeso da loro: è dipeso, se mai, dall’assenza di un radar alternativo a Pjanic (positivo). C’era Bonucci (al di là delle «bonucciate»), non c’è più.

Faticavano, i campioni, a sfruttare i contropiede che, ogni tanto, il Chievo concedeva. Asamoah ha smarrito il timing di un tempo, Sturaro lavorava come sa, Douglas Costa era timido, poco servito e poco servizievole: i battesimi, a volte, non sono mica tutti cin-cin. Higuain, lui, cercava munizioni (e Dybala, forse).

Matuidi faceva legna, un mestiere prezioso che non altera però l’estetica delle trame. Quando si scivola da uno schema all’altro (nel nostro caso, dal 4-2-3-1 al 4-3-3) si corre il rischio di commettere in partita, e pagarli, errori che in allenamento non paghi.

L’autogol di Hetemaj sembrava la carezza che il destino, cinico e caro, riserva spesso ai forti. Pjanic, al quale si deve la gittata della punizione, rifiniva un po’ qui e un po’ là, in una nuvola di sbadigli. Al Chievo mancava un attaccante. Alla Juventus, la storica Bbbc. Non male Benatia, comunque: un altro che comincia per b.

Stavano dominando, gli ospiti, quando Allegri ha tolto Douglas Costa e chiamato il carro attrezzi. Subito sul posto, subito a suo agio, lesto a capire perché il motore non cantava più. Morale: il gol di Higuain (dopo un «rimorchio» non banale), sgommate assortite per fendere la calca e arrivare in fretta in officina e il gol, bello, del 3-0.

Firma in calce alla ricevuta: Paulo Omar Dybala.

Un cerottino

Roberto Beccantini5 settembre 2017

E’ bastato un colpetto d’acceleratore, ma proprio un colpetto, per immaginarci i bolidi che non sappiamo più essere. Da Spagna-Italia 3-0 a Italia-Israele 1-0 cambia poco sul piano del gioco, molto in chiave play off, visto che, complice l’1-1 di Macedonia-Albania, ormai ci siamo.

Prendiamolo come un cerotto su una ferita fresca e profonda, anche se poi, quando sorteggiarono i gironi, non uno che io ricordi collocò gli azzurri davanti alle furie. Certo, c’è modo e modo di perdere: e al Bernabeu abbiamo perso malissimo; e c’è modo e modo di giocare, cosa che in passato non poteva fregar di meno ma da Sacchi in poi ha cominciato a scuotere le coscienze (e le edicole).

Ancora e sempre 4-2-4, Ventura. E’ uno schema che coraggio e presunzione si palleggiano rinfacciandosi qualità dei giocatori e sensibilità del tecnico (ho detto sensibilità, non fissazione). Il tasso più modesto degli avversari ha alzato leggermente il livello della nostra manovra. Solo nel secondo tempo, però: il primo era stato un disastro senza un Isco a giustificarlo, e con un paio di brividi che avevano irriso persino i fanatici del possesso palla (71 per cento: contenti?). La sgrullata di Immobile ha evitato l’ennesimo plotone di esecuzione.

Se ti consegni a un modulo così zemaniano, la squadra deve restare corta e le ali sorreggere i centrocampisti. Nel dettaglio: Belotti e Immobile si sono più pestati che trovati, De Rossi e Verratti hanno trattato la palla come un bebè, passandosela con un affetto che limitava gli effetti; un po’ meglio Insigne (nel senso di più coinvolto); una piccola scossa, l’ingresso di Zappacosta.

Avremmo potuto anche raddoppiare, ma non è questo il punto. Il punto è che questi siamo e la speranza che sia tutta colpa del ct aiuta il nostro ego, non il nostro calcio.